Ho aperto un blog e no, non penso che i siti web siano passati di moda.

Agli inizi degli anni 2000 l’unico modo per avere uno spazio di comunicazione in rete era quello di aprire sito web o un blog (blog è la contrazione del termine inglese web-log, cioè diario in rete).
Questa tendenza ad avere una propria identità in rete ha avuto la sua affermazione di massa quando piattaforme come WordPress, Altervista o My Space cominciarono a dare la possibilità ai propri utenti di customizzare la propria pagina Blog a costo zero.
Senza dover acquistare alcun dominio, ne conoscere l’Html e il Css, era possibile arrivare ad ottenere degli ottimi risultati dal punto di vista grafico o semplicemente uno spazio di indipendenza per la diffusione del proprio pensiero e delle proprie idee a costo zero.

Le piattaforme che mettevano a disposizione i blog da customizzare non si preoccupavano di creare meccanismi di visibilità tra gli utenti, come invece faranno i social più avanti.
Questo tipo di organizzazione della rete favoriva maggiore libertà di espressione, una minore espansione delle cerchie di contatto rispetto agli attuali social network ma anche un minor controllo sui contenuti.

L’epoca d’oro dei social network e la nascita degli algoritmi.

Tra il 2008 e il 2010 Facebook e Twitter fanno la loro comparsa sulla scena globale. In Italia per un fenomeno culturale difficilmente spiegabile in poche righe il secondo ha avuto meno fortuna del primo. La generazione della quale faccio parte e quelle precedenti, hanno praticamente usato questo unico social network fino a pochissimi anni fa.
Anche questo probabilmente ha inciso sulla qualità del dibattito pubblico nel nostro paese.

Da subito la possibilità di sviluppare enormi reti di condivisione on line del proprio pensiero, diventa un moltiplicatore per le istanze sociali che in quegli anni erano forti nel dibattito pubblico a livello mondiale (la partecipazione, il debito, ecc. ecc.).

Forse l’Onda è stato il primo movimento sociale nato con e dentro la rete, seguirono di li a poco gli spagnoli e gli americani di #Occupy, le proteste a Gezi Park in Turchia, le primavere Arabe e il loro connubio con Twitter. Già però qualcosa stava cominciando a cambiare.
Si cominciavano a fare strada le prime fake news fabbricate da agenzie governative o gruppi di intelligence e l’utilizzo massiccio dei troll per destabilizzare e condizionare l’ opinione pubblica, soprattutto occidentale.

Grazie ai social però, per la prima volta nella storia dell’umanità era possibile costruire in pochissimi click un circuito di persone che a livello locale e globale condivideva le stesse idee e le stesse informazioni.
Le informazioni e la velocità con cui erano divulgate diventavano un’arma contro il potere dei media e il loro storico monopolio.
Spesso la diffusione di immagini forti attraverso la rete scatenava reazioni immediate, sia come pressione dell’opinione pubblica sulle istituzioni, personaggi politici o aziende private, ma anche dando vita a manifestazioni e proteste nelle piazze di mezzo mondo.

Grazie a queste peculiarità e in seguito alla semplicità di accesso ai social attraverso le app per smartphone, i social network sono diventati in modo distorto sinonimo di informazione.
Capita spesso di sentire l’affermazione “l’ho letto su Facebook”, come se ci trovassimo di fronte ad una qualsiasi testata giornalistica.
Questo fenomeno ha condizionato, anche negli anni successivi alla sua comparsa, la qualità del dibattito pubblico in Italia e la capacità di fette sempre maggiori di popolazione di attingere a informazioni di qualità.

Tant’è che nei primi dibattiti sulla regolamentazione di Facebook per la sua incapacità di arginare le fake news, l’opposizione più frequente alle posizioni “regolamentiste” era quella di etichettare come “censura” ogni tentativo di maggiore controllo sul Social Network, neanche ci trovassimo di fronte ad una regolare testata giornalistica.

E’ in dubbio che in una fase iniziale della loro espansione i social network fossero meno “sofisticati” e gestiti da algoritmi meno preformanti, il fenomeno però è stato normalizzato nel giro di pochi anni.
Una volta che il gigante di Zuckerberg aveva costruito l’architettura del suo mercato, perfezionato l’intelligenza artificiale, garantito la sua posizione dominante sul web quasi da monopolista, ha cominciato a modificarne anche le regole e gli algoritmi, sempre più capaci di stringere gli utenti all’interno delle proprie cerchie di consumo.
Trasformando uno strumento, dalle indubbie capacità di interconnessione tra le persone su scale globale, in una macchina per la gestione e il controllo del consenso politico e dei gusti di acquisto del pubblico.

Qualche tempo veniva ripresa, un po’ paradossalmente, su molte bacheche Facebook (sic) una frase riportata da un documentario molto seguito su Netflix. “Se non paghi per usarlo, vuol dire che il prodotto sei tu”.

Sicuramente la frase fa molto effetto, avrà generato tanti like è un ottima audience su cui inviare la sponsorizzata del documentario di Netflix (lo so è perverso ma funziona esattamente cosi), ma non è esattamente corrispondente alla realtà.

Ciò che Fb o gli altri social vogliono non è te, ma i tuoi gusti, le tue abitudini al consumo, gli stili di vita che ti influenzano maggiormente e i personaggi che incarnano al meglio le tue passioni, il tuo modo di essere un buon cittadino/a-consumatore.

Devono sapere con sufficiente anticipo come si muoveranno i gusti e le abitudini al consumo, cosi da essere più precisi per pianificare la vendita e ridurre al massimo l’errore o se vogliamo più classicamente massimizzare i profitti e ridurre le perdite.

Man mano che l’intelligenza artificiale avanza crea una bolla nella quale vengono collocate le tue abitudini sempre più stretta, un recinto per definire chi appartiene a quel determinato gruppo sociale, con quello stile di vita. Successivamente venderà quel numero aggregato ad un terzo che lo utilizzerà come target sul quale sparare una determinata pubblicità: più preciso è il target più velocemente va segno la vendita. Il consumatore crede di avere assecondato i suoi bisogni, il venditore è soddisfatto per la vendita… il social re dei like fa milioni di euro di fatturato man mano che crescono click e le interazioni.

Intanto noi abbiamo ceduto ad un monopolista privato il controllo totale dei processi che ci portano a prendere delle decisioni, sia chiaro non abbiamo ceduto la decisione, ma i dati su come man mano arriviamo a prenderla.
Nei nostri regimi democratici, fondati sull’economia neoliberista, dopo il mercato qual è la decisione più importante? Il voto.

Quei contenuti che una volta erano alla base del nostro sentirci liberi di poter condividere con i nostri amici e conoscenti visioni, opinioni o informazioni, diventano tutto ad un centro la benzina di cui si nutrono gli algoritmi. Questi ultimi sono in grado di influenzare qualsiasi cosa, dalla tendenze sulle nuove mode, al tipo di dibattito che deve seguire la stampa fino al modo con cui interpretare le scelte politiche.

Più immettiamo contenuti sui social media, più aiutiamo l’IA a perfezionarsi, se però il nostro obiettivo non è la vendita ma produrre conoscenze che portano come risultato alla reazione sociale rispetto ad un determinato fatto, l’algoritmo potrebbe ritenere utile non diffonderlo. Relegando cosi il suo creatore ad un oblio comunicativo o peggio ad una bolla sempre uguale a se stessa, composta da individui, pochi o pochissimi, che la pensano sempre allo stesso modo e che non sono in grado di riconoscere la verità dalla bugia, visto che si autosostengono vicendevolmente.

E’ quello che succede spesso, ad esempio, nei gruppi Telegram animanti dalle più svariate teorie complottiste.
Telegram è l’opposto di Facebook, nessun tipo di controllo su gusti e abitudini, solo uno spazio libero da qualsiasi costrizione.
Ovviamente il problema non è la piattaforma in se, il punto vero sarebbe avere una popolazione altamente formata sull’uso dei social network in grado di riconoscere una notizia vera da una fake in pochi secondi.
Fino a quando si lasceranno in una posizione di domino incontrastato le company dei Big Data, sarà difficile aprire una discussione seria sulla pedagogia di utilizzo dei social media.

In pochi anni i social media hanno mostrato la loro parte più insidiosa, soprattutto nelle modalità con le quali si sono affermati nelle nostre società occidentali. Abbiamo permesso che l’intero controllo sui dati delle nostre popolazioni, i loro usi, le loro abitudini finissero nelle mani di pochi privati che oggi detengono un potere enorme non sottoposto ad alcun controllo.
Il massimo del godimento capitalista, realizzato in pochissimi anni.

Probabilmente lo Stato Italiano non detiene neanche la metà delle informazioni sui propri cittadini rispetto a quelle che sono nei data server di Google o Facebook.
Pensiamo ad esempio agli smartwatch e alle informazioni raccolte sulla salute di chi li indossa, sulle abitudini legate al sonno o alla regolarità con cui facciamo sport. Il nostro Ministero della Salute non è neanche lontanamente competitivo e forse ne avrebbe maggior titolo.
So che può sembra una posizione “statalista”, però riflettendoci preferite che i vostri dati siano conservati da un’istituzione pubblica o da una multinazionale che ha sede nel deserto della California?

Quindi bisogna abbandonare la rete, i social e diventare fautori di un primitivismo delle relazioni personali? No, non credo che questa sia la strada migliore, seppure intensificare gli spazi di incontro e relazione aiuterebbe molto.

Bisogna presenziare la rete, arrivare ad imporre una supremazia dei diritti dei cittadini e della comunità rispetto alle pretese di liberalità dei grandi monopolisti dei Big Data.
Utilizzare anche degli strumenti di controllo pubblici li dove necessario.
Oggi Zuckerberg lancia il suo Meta ma siamo sicuri che non ci sia bisogno di capire come funzionerà e che tipo di impatto avrà sulla vita di milioni di persone il nuovo Metaverso?
Dopo aver già ampiamente testato l’incapacità di Facebook di garantire maggiore democrazia o tutelare i nostri dati personali non cedendoli a terzi,  vogliamo davvero mettere nelle stesse mani un nuovo e più invasivo strumento dell’evoluzione digitale?

Anche alla luce di queste riflessioni ho deciso di aprire questo sito web/blog.

Sentivo forte l’esigenza di avere uno spazio realmente “mio” nel quale poter esprimere le mie idee senza avere l’ossessione di non essere “premiato” con la visibilità dall’algoritmo.

Volevo creare uno spazio nel quale non sia l’algoritmo commerciale a sottoporre un contenuto alle persone.
La rete è un campo di battaglia dove in palio c’è la nostra libertà e il livello di democrazia delle società nelle quale viviamo, ma non è un luogo neutrale o orizzontale come si credeva un tempo.

In rete non siamo tutti uguali e le disuguaglianze sociali si trasferiscono, dalla realtà alla rete, con maggiore intensità rispetto al passato, cosi come i rapporti di forze tra le varie componenti della nostra società.

Stimolare la costruzione di spazi di libertà e di informazione resta ancora uno degli anticorpi migliori rispetto al capitalismo delle piattaforme.
Senza organizzazione, competenza e risorse sarà impossibile invertire la rotta intrapresa nell’ultimo decennio.