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Trovo vergognose e indegne le dichiarazioni Antonello Giannelli, presidente dell’Associazione nazionale presidi (Anp), rilasciate questa mattina a Radio Capital, sulla morte di Lorenzo Parelli giovane studente ucciso durante l’alternanza-scuola lavoro.
 
“Non esiste il rischio zero” con queste parole e altre banalità una persona che dovrebbe rappresentare i dirigenti scolastici di questo paese ha commentato la morte di un 18enne che sarebbe dovuto essere tra i banchi di scuola e invece ha trovato la morte in una fabbrica.
 
Già ieri l’associazione si era affrettata, nel comunicato di cordoglio per la scomparsa del giovane studente, a prendere posizione contro chi vuole la sospensione dell’alternanza-scuola lavoro – “intendiamo sottrarci al coro di chi chiede la soppressione di queste attività. ” – si legge nel loro comunicato.
 
Solo in questo paese il servilismo, da parte di chi dovrebbe rappresentare  Istituzioni Pubbliche, nei confronti degli interessi dei settori privati raggiunge livelli grotteschi. Tanto da arrivare a tranqullizzare Confindustria and co. sulla continuità dei progetti, direttamente nel comunicato che dovrebbe esprime solidarietà e dolore per la perdita di una giovane vita.
 
Mentre in tutto il Mondo occidentale si parla di riduzione della settimana lavorativa a parità di salario, reddito di base universale , dello sviluppo inarrestabile dell’automazione per ridurre sempre di più l’utilizzo della forza lavoro dell’uomo nella produzione industriale.
 In Italia bisogna difendere a tutti i costi gli interessi di questa banda di miserabili imprenditori che per fare impresa ha bisogno dei soldi pubblici e di sfruttare ragazzini con l’alternanza scuola-lavoro; che si scagliano continuamente contro giovani, precari, poveri e percettori di reddito di cittadinanza colpevoli, a loro dire, di non voler accettare lo sfruttamento sottopagato nei lavori stagionali che propongono.
 
Mentre i figli dei grandi nomi dell’industria italiana entrano tra 500 più ricchi uomini e donne del pianeta, ad intere generazioni hanno strappato la possibilità di avere un futuro dignitoso.
 
Avevamo ragione quando mettevamo in guardia il paese sugli effetti nefasti della 133 e della Riforma Gelmini che avrebbe ridotto Ricerca ed un Università ad esamificio che avrebbe arricchiato solo i venditori di titoli e reso il nostro paese più ignorante, sfornando laureati che sarebbero finiti solo ad ingrossare le fila del lavoro sfruttato e precario.
Cosi come avevamo ragione sull’alternanza scuola-lavoro che in questi anni si è dimostrata solo un regalo alle imprese ed un fallimento totale dal punto di vista formativo, non solo per la morte tragica di Lorenzo.
 
E’ chiaro che in questo paese c’è un muro tra generazioni diverse e classi sociali diverse, solo prendendone coscienza e provando a buttarlo a terra si potrà sperare in futuro diverso.
 
Altrimenti, per chi potrà permetterselo, resta la strada dell’emigrazione.

Ondata di polemiche sul nuovo spot della Parmigiano Reggiano.

Nonostante qualcuno abbia provato a difendere la scelta “artistica” del regista ,pochi in realtà, in queste ore sono montate polemiche e dure critiche contro una frase che nel mercato del lavoro italiano, purtroppo, non può essere considerata di pura fantasia.
Questo dimostra che in questo paese una certa coscienza sulla totale mancanza di diritti e garanzie in molti settori del mondo del lavoro, comincia a farsi vedere.

 

 

Renatino, diventato gia un meme vivente grazie alla forza della rete, incarna il modello del dipendente modello per il capitalismo nostrano.

 

 


Basta scorrere i siti per le ricerche di lavoro on line o gli annunci che si trovano su LinkedIn per imbattersi con una certa facilità in richieste tipo: “si richiede voglia di lavorare” , “forti motivazioni e persone che non guardano l’orologio” ecc. ecc.
E mentre si offrono non ben specificate possibilità di crescita, si chiede oltre al sacrificio, gestione dello stress e voglia di lavorare, esperienza di almeno 2 anni nel settore. Non si capisce, però, quando si sia potuta maturare questa esperienza visto che tutti richiedono 2 anni di esperienza pregressa e cursus honorum che manco la buonanima di Stephen Hawking

Se poi dal lavoro precario indigeno si passa alle condizioni della forza lavoro migrante, la situazione è ben più tragica.
Non di rado le denunce dei sindacati di base portano alla luce situazioni al limite dell’umano, soprattutto nel settore dell’agricoltura. Braccianti che vivono nei campi dove lavorano, in situazioni di semischiavitù dove il lavoro 365 giorni su 365 non è per nulla una battuta da spot televisivo.

L’Italia è il paese europeo dove i salari sono fermi a oltre 30 anni fa, mentre il costo della vita è almeno triplicato.
Un paese nel quale un’intera generazione è stata bombardata per anni con la favola dell’ autoimprenditoria, la demonizzazione del posto fisso (manco fosse la peste) e l’idea che se non amavi il padrone tuo come e più di te stesso in te c’era qualcosa di sbagliato.
Dove il lavoro è un favore, una gentile concessione, un dono che il datore di lavoro fa ai suoi dipendenti.

Insomma non è certamente un argomento da prendere alla leggera.

Parmigiano Reggiano, visto anche il danno di immagine, ha prontamente diramato un comunicato nel quale chiede scusa per l’infelice scelta pubblicitaria.

Peccato che per anni di precariato, sfruttamento e lavoro sottopagato nessuno abbia ancora chiesto scusa a milioni di persone che da 30 anni a questa parte non vivono come Renatino, ma che sicuramente non sono felici del proprio lavoro (quando c’è) e del proprio salario.

Anche la Catalogna sperimenterà una forma di reddito di base incondizionato.

Ad annunciarlo è il presidente della regione autonoma, Pere Aragonès, popolata da circa 7 milioni di abitanti con capitale Barcellona.
Il progetto pilota prevede l’istituzione di un dipartimento regionale che controllerà gli sviluppi dell’azione e le sue evoluzioni fino al 2025.
L’iniziativa nasce a seguito di una serie di colloqui tenutisi a novembre del 2020 tra Aragonès, Sergio Reventòs responsabile dell’ufficio di controllo e Guy Standing Co-fondatore del BIEN.
La Catalogna è solo l’ultimo di una lunga lista di paesi che stanno sperimentando forme di reddito di base sganciate dalla prestazione lavorativa.
Negli ultimi anni una lunga lista di paesi ha già percorso questa strada, prima della Catalogna la California aveva dato il via ad una sperimentazione simile.

Tutto questo avviene in un momento storico particolare, l’implementazione dell’intelligenza artificiale sta riducendo sempre più la necessità di forza lavoro non altamente qualificata in molti settori; la nascita di nuovi spazi di comunicazione digitali, come il Metaverso di Zuckerberg, mettono sempre più al centro il tema dello sfruttamento non retribuito del nostro tempo libero e della nostra creatività all’interno del web collaborativo che arricchisce solo i Ceo delle grandi piattaforme.

La riduzione della settimana lavorativa, il salario minimo e il reddito di base incondizionato
sono vere urgenze all’interno delle trasformazioni del mercato del lavoro nel mondo contemporaneo.

Peccato che il dibattito in Italia invece sia pieno di fake news e attacchi continui ai percettori di RdC, dipinti spesso come furbetti in cerca di un facile assegno per poter passare la propria vita sul divano di casa senza far nulla.
L’opinione pubblica, sulla spinta di diversi partiti e della quasi totalità della stampa main stream, viene dirottata sulla dimensione scandalistica del fenomeno, concentrandosi su di un bassissima percentuali di “furbetti”, evitando di parlare dell’impatto che il RdC ha avuto sulla povertà nel nostro paese e come andrebbe implementato e migliorato.

Il muro da abbattere è davvero enorme. Soprattutto perché il pregiudizio si fonda sulla relazione tra misure di sostegno al reddito, creatività e produttività, dando per scontato che le ultime due si riducano con l’introduzione della prima.
Tutti gli studi sulle diverse forme di Reddito dimostrano, non c’è nessuna correlazione tra l’attivazione nella ricerca di un lavoro o l’inattività creativa e il percepire una forma di ammortizzatore sociale, anche se questo fosse universale.
Quello che invece è sicuramente correlato è l’aumento del rifiuto di salari poco dignitosi con l’introduzione di forme di sostegno al reddito.

Insomma come al solito mentre il saggio indica la luna lo stolto si concentra sul dito.

Questi esempi internazionali possono però aiutare a sdoganare certi argomenti non restando schiacciati solo sulle posizioni di Confindustria and co. Che invece di guardare al futuro e discutere sulla tenuta di una società in cui i woorking poor sono sempre di più, intere generazioni non vedranno uno straccio di pensione, vorrebbe ritornare ad un passato dove chi è povero non ha nessuna altra scelta se non lo sfruttamento o a volte neanche quello.

Che fine ha fatto il lavoro in Campania?

Da queste parti si sa l’occupazione non è mai stato un “prodotto tipico”. La Campania, cosi come il Mezzogiorno tutto, storicamente sono al centro dell’incapacità di mettere in campo politiche pubbliche che riducano i tassi disoccupazione. Cambiano i colori delle giunte Regionali o i Ministri del Lavoro ma la musica non cambia.

Fino a pochi anni fa i temi del lavoro e dell’occupazione erano costantemente al centro delle attenzioni di stampa e politica nazionale e locale.
Negli ultimi 5 anni l’atteggiamento però è profondamente cambiato. Probabilmente la politica al tempo dei social, per non affrontare temi su quali non riesce a dare risposte, evita man mano di parlarne.

Intanto i numeri sono sempre più preoccupanti, secondo l’Istat nella sola provincia di Napoli il tasso di disoccupazione è passato dal 17% del 2011 al 21,5% del 2020.
Ai numeri del 2020/2021 va però aggiunta una piccola riflessione: senza il blocco dei licenziamenti avremmo avuto cifre molto più preoccupanti.

dati disoccupazione campania

Ai dati sulla disoccupazione vanno affiancati quelli sull’emigrazione, tra il 2011 e il 2019 l’ultimo censimento ISTAT ha rilevato circa 55 mila residenti in meno in Regione Campania.

Nel giro di un decennio sono andate via senza più tornare tante persone quante ne potrebbe contenere lo Stadio Maradona durante una partita di cartello.

Questi numeri dovrebbero lasciare immaginare che in Campania il lavoro sia una priorità, in cima all’agenda politica di partiti e istituzioni, in particolare da parte della Regione Campania visto che ha la competenza sulle politiche attive.
Purtroppo non è cosi.

Vincenzo De Luca sembra poco interessato dalle questioni del lavoro, tranne quando non si trasformano in grandi spot elettorali.
Si sa più del 60% dei bilanci regionali è fatto da voci che riguardano la sanità. Sia il consenso che i grossi affari, specialmente in un periodo di pandemia come quello che stiamo vivendo, ruotano attorno a questo settore.
Basta guardare alle ultime inchieste della magistratura napoletana, tra le mani della camorra sugli appalti dell’Asl Napoli 1 o i presunti rimborsi non dovuti per i posti letto nelle strutture private  durante la pandemia, per capire come politica, imprenditoria e malavita concentrino tutte le loro energie nella stessa direzione.

Intanto le crisi aziendali non mancano (vedi Whirpool) e le risorse che arrivano dall’Europa per i percorsi di ricollocamento lavorativo e la formazione però non sono certo poche.
Solo tra il 2014 e il 2020 la Regione ha avuto a disposizione circa 160 milioni di euro, provenienti dal FSE da destinare per il sostegno all’occupazione e alla lotta alla disoccupazione.

I risultati? Sono sotto gli occhi di tutti.

Qui non c’è bisogno di scomodare l’ISTAT o lo Svimez per comprendere la totale assenza di visione e il fallimento in cui siamo intrappolati, basta passare qualche ora sul web, mettendosi nei panni di un cittadino campano che cerca lavoro.

Sul sito della Regione non c’è traccia di informazioni utili o link che supportino le persone nella ricerca di una collocazione lavorativa, se si naviga un po’ di insistenza in più ci si può imbattere nella pagina del FSE, dove sono stati pubblicati tutti i percorsi formativi e di ricollocamento messi in campo dalla Regione Campania, tutti fermi all’inizio del 2020.
Insomma sembra quasi che il sito esista perché l’UE impone che ci sia uno spazio web per la trasparenza ma che nella sostanza finito il tesoretto che arriva da Bruxelles a nessuno importi nulla delle politiche per il lavoro.

Tanto è che in Regione sono state accorpate le deleghe sulle attività produttive a quelle per il lavoro, con evidente sacrificio di queste ultime.

Ritornando però alle pagine Web regionali, rispetto ai risultati raggiunti dal utilizzo di questi fondi non c’è minimamente traccia, se provate a cliccare su “Monitoraggio Garanzia GG” si apre una pagina Error – 404.

Spostandosi sul sito di Click lavoro, portale ufficiale dei centri per l’impiego campani, lo scenario è più o meno lo stesso, la sola differenza è che le uniche offerte di lavoro che riuscite a trovare sono quelle legate a Garanzia Giovani. Il massimo dell’offerta “lavorativa” consiste in tirocini pagati circa 500 euro al mese per giovani neet tra i 18 e i 29 anni.
Peccato che in Campania la fascia più alta di disoccupati sia quella degli over 50 con una bassa scolarizzazione.

De Luca nella sua battaglia contro i navigator, è riuscito nel suo intento di non farli mai entrare nei centri per l’impiego. Probabilmente il Presidente voleva avere il monopolio delle assunzioni pubbliche, viste le condizioni nelle quali sono ridotti i centri per l’impiego, risulta difficile credere che alcune centinaia di giovani formati proprio su queste materie specifiche non fossero utili ai cittadini campani.

Insomma peggio, ma molto peggio delle offerte di lavoro che potreste rimediare su siti come Subito, Indeed ecc. ecc.

A questo punto ad un senza lavoro non resta che rivolgersi a qualche agenzia privata per il lavoro o se le cose dovessero andare peggio, emigrare.

Viene quasi il sospetto che alla fine l’obiettivo si proprio quello di consolidare il ruolo della gestione privata nell’intermediazione tra domanda e offerta di lavoro…

Alla luce di questa situazione però una domanda sorge spontanea: che fine fanno le risorse campane per il lavoro?

In questo scenario gli unici beneficiari di queste risorse sembrano essere gli enti di formazione accreditati con la Regione.
Per questi soggetti i disoccupati campani rappresentano un obolo da accaparrarsi offrendo corsi di formazione a titolo gratuito o stage e tirocini presso aziende private.
E’ facile pensare che se il business si fonda sulla disponibilità di circa 300.000 persone al ricollocamento lavorativo o formativo, perché un’ente di formazione dovrebbe avere l’interessa a far ottenere un posto di lavoro, con un contratto stabile, ad un disoccupato? Sembra essere molto più convenite caricare e scaricare quello stesso disoccupato anche 4-5 volte durante tutta la durata del ciclo di finanziamento europeo, intascando ogni volta la commessa da parte della Regione.
Ovviamente dovrebbe essere l’istituzione regionale a vigilare e valutare quanto siano efficaci i percorsi offerti dagli enti di formazione, soprattutto fornire dati pubblici sul numero di contratti di lavoro attivati grazie alle risorse della comunità europea.
Tutto ciò non solo non avviene ma negli ultimi anni la politica ha sviluppato un rapporto sempre più stretto con alcuni enti di formazione, veri e propri bacini di consenso e voti.

Insomma un enorme spreco di denaro pubblico sotto gli occhi dell’opinione pubblica, distratta dalla paura di un virus che dopo i polmoni inizia ad annebbiare la vista e mettere in pericolo anche il minimo esercizio democratico.

Ogni centesimo speso in questo modo, ogni clientela che si crea dalla mala gestione delle risorse pubbliche è uno schiaffo alle migliaia di giovani della nostra regione che per anni sono costretti a subire le umiliazioni della precarietà e della disoccupazione, arrivando ad emigrare per ritrovare un minimo di dignità.

Quanto tempo ancora dovremmo aspettare perché una nuova generazione metta fine a tutto questo?